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carico mentale

Il lavoro nella nostra società è fondamentale ed è relativo alla fatica che facciamo nel compere un’azione che genera un guadagno. Ma riguarda anche – vogliamo dirlo una volta per tutte? – quello che si fa a casa, i lavori di cura e le varie attività sociale. Per svolgere tutte queste azioni è necessario un intenso lavoro di organizzazione; in particolare chi ha figli lo sa, tocca gestire le varie attività extrascolastiche, le feste per i compleanni, gli appuntamenti associativi, sportivi, le visite mediche, la gestione dei compiti. In genere a svolgere questo ruolo di organizzazione è quasi sempre la mamma, la quale si accolla gran parte del carico mentale, quasi fosse una family manager.

Questo perché oggi le famiglie sono complesse; se per esempio un bambino sta male è necessario avere un piano b da applicare per le emergenze e, se non lo si ha, in genere la cosa più semplice è rinunciare al proprio lavoro e allo spazio per sé. Si tratta pur sempre di un mero calcolo costi-benefici, ma implica comunque un sacrificio di sé. E’ quindi facilissimo ritrovarsi in uno stereotipo di genere perché spesso, anche nelle famiglie dove entrambi. coniugi si occupano della famiglia, è la dona che si accolla il tentativo di far filare tutto liscio e quindi anche il carico mentqale che questo comporta.

Nel 1984 la definizione di carico mentale è entrata nel dizionario Petit Larousse che lo definisce come “fardello psicologico che fa pesare la gestione di compiti domestici ed educativi, causando affaticamento fisico e in particolare psicologico”.

 

Se chiedete a una donna di qualche generazione precedente come vede oggi la condizione di una giovane madre, molto probabilmente risponderà che oggi è tutto più complicato. Alcune diranno perfino che i qualche modo è colpa della donna che vuole fare tutto invece che occuparsi prevalentemente della casa, del resto è stata educata così.

L’organizzazione, anche se nella realtà delegata a qualcun altro (baby sitter, nonni… ) è comunque un loop aperto nella testa di chi la deve gestire. Ce l’aveva persino Marie Curie che si divideva tra la cura della figlia e il lavoro di laboratorio.

Il lavoro d cura, di cui l’organizzazione fa parte, oggi non è riconosciuto né a livello sociale né, tantomeno, a livello economico e finisce per essere un vincolo per chi lo svolge, in genere le donne.

Secondo l’Istat le donne italiane detengono il primato europeo per quantità di tempo speso in lavori di cura non retribuiti e, in modo speculare, gli uomini italiani sono quelli che ne impiegano meno.

Se l’idea di stipendiare il lavoro domestico era volta proprio a rifiutare l’idea che quel lavoro fosse espressione della natura intrinseca della donna, tocca anche fare qualche riflessione sul ruolo della casalinga il cui lavoro gratuito: secondo Federici, è stato un’opera di ingegneria sociale fondamentale per la creazione del sistema capitalistico perché ha fatto sì che le famiglie borghesi avessero tempo  e risorse da investire in attività commerciali e industriali.

Questo per dire che attività come mettere in ordine, prendersi cura della casa, organizzare sono attività che hanno un grande senso e potrebbero anche dare soddisfazioni se fossero scelte senza vincoli sociali e riconosciute. E anche per dire che non è vero, come ci vogliono fare credere in tanti influencer che “se scegli un lavoro che ami non lavorerai un giorno nella tua vita”: si tratta di un’altra trappola capitalistica per accettare lavori sottopagati che impediscono la conciliazione tra lavoro e vita privata. Così come l’idea d svolgere un lavoro per amore ha origine proprio dal lavoro non retribuito delle casalinghe, passando per i lavori di cura e organizzazione.

 

Tocca quindi riflettere seriamente sull’idea di lavoro che abbiamo oggi. Come fanno Andrea Colamedici e Maura Gancitano nel saggio Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo a cui mi sono ispirata per scrivere queste righe.

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